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“Tutti sono folli”

Jacques-Alain Miller
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AMP 2024

Dedico questa conferenza ad Angelina Harari che, come presidente per quattro anni, ha guidato la vita dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi (AMP) con una mano a volte ruvida, a volte gentile, ma sempre pertinente.

Spetta a me dare il titolo ai congressi dell’AMP*. Perché? L’abitudine ha preso piede, è diventata una sorta di tradizione – attenzione: è un pericolo! Non sarà sempre così. Ma ritengo che quel momento non sia ancora arrivato. Quindi continuo. Il nostro prossimo congresso si intitolerà: Tutti sono folli[1].

Contesto

Come il titolo delle presenti Assisi – La donna non esiste –, Tutti sono folli è un aforisma di Lacan. L’ho ripescato da uno scritto minuscolo, composto da Lacan su mia richiesta. All’epoca si trattava di difendere il Dipartimento di psicoanalisi di Vincennes, la cui esistenza all’interno dell’Università di Parigi 8 era minacciata. D’altronde, ogni anno essa è ancora minacciata, per motivi congiunturali e anche per una ragione strutturale. La verità è che, come scrive Lacan, la psicoanalisi non è materia di insegnamento[2]. Ciò è dovuto all’opposizione, che io dico strutturale, tra il discorso analitico e il discorso universitario, tra il sapere sempre supposto nella pratica della psicoanalisi e il sapere esposto che è centrale nel discorso universitario. Non sviluppo questa opposizione, che ci è ben nota.

Ho estratto questo aforisma da poche righe scritte da Lacan in un tempo che si potrebbe dire d’oltretomba, in quanto si colloca dopo il Seminario da lui intitolato “Il momento di concludere”. Tutto quello che Lacan ha scritto o pronunciato dopo questo Seminario gode di uno statuto speciale di après-coup rispetto all’insieme compiuto del suo insegnamento – uso questo termine, che usava anche lui prima di respingerlo. Ciò conferisce a queste affermazioni frammentarie un valore testamentario. Tutti sono folli, Lacan lo ha formulato una e una sola volta, in un testo pubblicato in una rivista allora riservata, Ornicar? Poiché io l’ho appuntato, commentato, ripetuto, questo aforisma è entrato nella nostra lingua comune, quella dell’AMP, e in quella che potremmo chiamare la nostra doxa. È diventato addirittura una sorta di slogan.

Nel contesto dell’epoca, è stato inteso in un modo che lusinga i pregiudizi contemporanei, ovvero la rivendicazione democratica di una fondamentale uguaglianza dei cittadini che si impone sulla gerarchia tradizionale e che decostruisce la gerarchia che regolava il rapporto del curante con il suo paziente. Lo dico senza nostalgia, dato che Lacan aveva anticipato l’ideologia contemporanea dell’uguaglianza universale degli esseri parlanti sottolineando la fraternità che dovrebbe legare, secondo lui, il terapeuta al suo paziente. L’uomo «affrancato» della società moderna, ha detto, dobbiamo accoglierlo e, cito, aprire nuovamente la via del suo senso in una fraternità discreta alla cui misura siamo sempre troppo ineguali[3].

Depatologizzazione

Se la posta in gioco è la fraternità, questa ha smesso da tempo di essere discreta ed è stata invece rivendicata a gran voce con il pretesto della totale e completa uguaglianza degli esseri parlanti.

In queste condizioni, non dobbiamo stupirci che questa pretesa egualitaria si traduca nella scomparsa programmata della clinica. Tutti i tipi clinici vengono progressivamente eliminati dal grande catalogo clinico, già declassato e decostruito dalle successive edizioni del DSM. E questo, in un momento in cui tutti gli individui affetti da un disturbo mentale, da un handicap o da ciò che un tempo veniva giudicato come anormalità, si associano e formano dei gruppi. Questi gruppi, legalmente fondati e registrati, sono spesso costituiti come gruppi di pressione – ci sono persino gli autistici e coloro che sentono le voci, ecc. Tutto lascia pensare che la clinica sarà presto un ricordo del passato. Sta a noi adeguare la nostra pratica a questa nuova epoca, senza nostalgia, senza rancori, senza spirito di rivalsa.

In un simile contesto, l’aforisma lacaniano non può che essere interpretato come l’assunzione e la convalida di un termine ormai di uso comune (l’abbiamo sentito risuonare più di una volta durante queste Assisi): la depatologizzazione. Non ci saranno più patologie, ci saranno, anzi ci sono già, al suo posto, stili di vita liberamente scelti – una libertà imprescrittibile perché è quella dei soggetti di diritto. Se posso permettermi, il d(i)ritto prevale sullo storto[4].

Freud parla della sostituzione del principio di realtà al principio di piacere. Assistiamo alla sostituzione del principio giuridico al principio clinico, assimilato a un suprematismo ormai inviso nei regimi democratici. Le conseguenze si stanno già facendo sentire. Per fare un solo esempio recente, la legge approvata quest’anno dal Parlamento francese stabilisce che qualsiasi riserva, riluttanza o modulazione nei confronti della richiesta di un soggetto – soggetto di diritto – per una transizione di genere, come viene chiamata, sarà d’ora in poi considerata un reato. È stato necessario l’intervento delle istanze dell’École de la Cause freudienne perché l’Assemblea Nazionale e il Senato ratificassero due emendamenti che fondano l’eccezione dei terapeuti, a condizione che le loro osservazioni mostrino prudenza, invitino alla riflessione e non contravvengano alla comprensione e al rispetto che si impongono di fronte a quella che ho chiamato la libera scelta del proprio stile di vita. Oggi stesso un politico francese propone addirittura di introdurre il cambiamento di sesso nella Costituzione francese e di riconoscerlo come un diritto umano fondamentale, finora trascurato.

In queste condizioni, l’aforisma formulato da Lacan nel 1978 è inteso come perfettamente in linea con lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Tuttavia, in questo modo, sarebbe stato meglio dire: Tutti sono normali.

Un duplice paradosso

La formula Tutti sono folli, completata nel testo di Lacan da un ossia deliranti, fa comunque risuonare una sorta di stridio. In effetti, l’imputazione di follia e delirio rientra ancora nella clinica. Sembra convalidare la fine della clinica, ma in termini che appartengono alla clinica. Questo però non è l’unico paradosso introdotto da questo aforisma. Infatti, chi dice Tutti sono folli? Non può che essere un folle. La sua affermazione è quindi un delirio. In quanto universale, è l’esatto duplicato del detto di Epimenide, enunciato al singolare con un io, ossia Io mento. Questo duplice paradosso è tale da farci sospettare che, nell’aforisma in questione, ci sia di più e forse qualcosa di diverso rispetto alla convalida della cosiddetta depatologizzazione.

Confesso che, diffondendo questo aforisma, tagliandolo fuori dal suo contesto scritturale, elevandolo o abbassandolo alla qualità di uno slogan – così efficace! – ho indubbiamente favorito un equivoco che dovrà essere corretto quando ne faremo il tema del nostro prossimo congresso. Niente di più semplice: basta ricollocarlo nel contesto del breve scritto da cui l’ho estratto – cosa che cercherò di fare nella forma inevitabilmente abbreviata richiesta dalla funzione di chiusura che determina il mio compito qui.

Dialettica per la clinica

Prima di impegnarmi in questo lavoro di contestualizzazione, faccio un breve excursus per indicare come si potrebbe salvare la clinica a dispetto di ogni depatologizzazione. Basterebbe ricorrere alla dialettica di Monsignor Dupanloup, sviluppata per calmare l’ardore di coloro che nella Chiesa si ribellavano alle proscrizioni relative al progresso, al liberalismo e alla civiltà moderna articolate nel Sillabo di Papa Pio IX. L’astuto vescovo, portavoce della corrente liberale, procede distinguendo due livelli: quello che chiama tesi, dove si afferma il principio come assoluto; poi, dal basso, inscrive l’ipotesi (nel senso di ciò che sta sotto la tesi), dove trionfa il relativo. Il principio, pur essendo assoluto al suo livello, lascia aperto uno spazio di modulazioni, certo subordinato, ma in cui si tiene conto delle circostanze, di ciò che è opportuno e di ciò che non lo è, delle necessità dell’operatività, ecc. Così, l’assoluto e il relativo, lungi dal contraddirsi l’un l’altro, possono coesistere come buoni vicini, a condizione che si stabilisca una gerarchia tra i due termini.

Utilizzando questa dialettica, la tesi come assoluto sarebbe la scomparsa di ogni patologia e l’egualitarismo post-clinico. Tuttavia, nell’interesse del pubblico, per scongiurare il disordine e persino le distruzioni, che la cieca applicazione del principio assoluto inevitabilmente comporterebbe, manterremo le distinzioni della clinica al livello subordinato dell’ipotesi. Mi permetto di notare che questo concilierebbe il punto di vista dei miei colleghi Dominique Laurent e François Leguil[5] con il mio: tesi per me, ipotesi per loro.

Ciò che non si insegna

Dopo questo excursus, la mia prima osservazione, o rettifica, sarà piuttosto semplice: mi accontenterò di prendere in considerazione la frase che segue immediatamente Tutti sono folli, ossia deliranti. La frase è la seguente: Questo è dimostrato nel primo passo verso l’insegnamento[6]. Qui non c’è nessuna depatologizzazione, ma un abbassamento, un decadimento e, perché no, una decostruzione di quello che è l’insegnamento – ciò può sembrare sorprendente da parte di un soggetto che ha a lungo celebrato la posizione d’insegnante e che parlava lui stesso del proprio insegnamento.

Infatti, che cosa, secondo Lacan – l’ultimissimo Lacan, l’oltre-Lacan – si dimostra in questo modo, se non che insegnare è una follia, che l’insegnamento è un delirio? L’aforisma in questione fa quindi parte di una feroce critica alla funzione dell’insegnamento. Questa critica feroce – e, aggiungerei, propriamente clinica – inquadra l’aforisma Tutti sono folli. Se rileggiamo ciò che viene prima nel testo, possiamo vedere che, fin dall’inizio, si tratta di una critica, non della clinica, ma proprio di qualsiasi insegnamento. D’ora in poi, lo slogan sarà inteso come se dicesse: Bisogna essere folli per insegnare, chi insegna delira. A prima vista, ciò che interessa Lacan sembra essere la struttura di ogni insegnamento.

Che strano modo di difendere il Dipartimento di psicoanalisi – che egli ha incoraggiato e di cui ha sempre sostenuto l’esistenza –, svalutare l’insegnamento, e in particolare l’insegnamento della psicoanalisi, scrivendo che il discorso analitico non è materia di insegnamento. E perché non lo è? Quali sono le presunte ragioni di Lacan per attaccare così la funzione dell’insegnamento?

In primo luogo, il discorso analitico, a differenza degli altri tre che ha costruito, non insegna niente perché – Lacan lo enuncia – esclude la dominazione. Non è discorso del padrone, il quale è, per eccellenza, discorso della dominazione, perché esso si fonda sull’incontestabilità di un significante-padrone. Il discorso del padrone insegna cos’è un sapere, cioè che il sapere è sempre servo di un significante-padrone – questo non è smentito dalle condizioni di nascita dell’Università, che può essere collocata approssimativamente all’epoca di Carlo Magno. Non si tratta neppure di discorso universitario, che installa un sapere nel posto dominante, che permette e persino richiede l’insegnamento. Il discorso universitario è, per eccellenza, discorso dell’insegnamento. Infine, il discorso dell’isterica fa del soggetto il padrone del padrone; domina il dominatore e, così facendo, lo mette al lavoro per produrre un sapere. Questo non è il sapere servo del padrone, tanto meno il sapere-padrone. È il discorso che spinge all’invenzione del sapere, tanto che Lacan sottolinea l’affinità strutturale del discorso dell’isterica con quello della scienza.

Anche il discorso analitico comporta il posto della dominazione – in alto a sinistra negli schemi di Lacan. Tuttavia, questo posto è occupato da un elemento che non è fatto per dominare, comandare, sottomettere, ma per causare il desiderio: quello che Lacan chiama l’oggetto a. L’oggetto a, causa del desiderio – dico – mentre è proprio il desiderio che non si lascia dominare, che resiste a qualsiasi comando, che sventa e di cui si beffa. Dov’è il sapere in questo discorso? È in posizione di essere solo supposto – e non esplicito – a differenza del discorso universitario. Essendo sempre e solo supposto, è come sotto-posto che sostiene l’istanza della causa del desiderio di cui l’analista si fa sembiante. Qui non c’è insegnamento, il che non impedisce che, a volte, sia possibile trarne insegnamento, ma si tratta di un sapere senza valore d’insegnamento, senza ordine, né coerenza, né sistema – un sapere che dipende da incontri casuali, senza legge. Il discorso analitico quindi non domina. E, in particolare, non domina il suo soggetto – da intendersi come si vuole.

La seconda ragione che Lacan adduce per rifiutare al discorso analitico la capacità di essere materia di insegnamento è: non ha niente di universale. Infatti, non è affatto per tutti. È, se così posso dire, per uno solo, per l’Uno-tutto-solo. Solo per lui l’interpretazione può dare luogo a un sapere, che svanisce non appena si pretende di universalizzarlo, di farlo valere per tutti. Provate a spiegare l’effetto sensazionale di un’interpretazione a un vasto pubblico: quello che ne emergerà sarà solo il suo carattere banale o discutibile.

Introduco qui una modulazione. Lacan non dice che la psicoanalisi non può essere materia di insegnamento, ma che il discorso analitico non può esserlo, vale a dire, grosso modo, la pratica della psicoanalisi. Esistono, d’altro canto, a lato, le teorie della psicoanalisi, la sua storia e i dibattiti che essa ha suscitato e che costituiscono un deposito. A fronte di questa ripartizione, di questa divisione, tra pratica e teoria della psicoanalisi, qui non c’è nessun disconoscimento del Dipartimento di psicoanalisi, della presenza della psicoanalisi nell’Università. Al contrario, c’è una restrizione che apre e libera un campo: la pratica della psicoanalisi non si insegna; al massimo, essa è supervisionata occasionalmente, ogni volta a partire da un caso singolare, che non può essere portato all’universale, ma che può essere elevato, quando si presta, alla dignità del paradigma.

È quindi un monito di Lacan nei confronti dei suoi allievi. Sappiate e fate sapere che niente di ciò che vi sarà insegnato della psicoanalisi all’Università vi permetterà di fare a meno di una psicoanalisi. Dovrete, come indica l’Ouverture degli Scritti, metterci del vostro[7], pagare di persona, e questo in quanto tutt’altro che allievi, cioè come analizzanti.

Dall’impossibile al necessario

Ordino la continuazione del mio discorso di chiusura, che è piuttosto un discorso di apertura, aggrappandomi a questo testo di Lacan, e prima di tutto alla frase che ho fatto porre sulla copertina dei suoi brevi scritti raccolti nella collana intitolata “Paradossi”. È con il terzo dei paradossi di questo testo che inizia il secondo paragrafo: Come fare a insegnare ciò che non si insegna?

Non è la prima volta che Lacan trasmuta un impossibile in un reale. Diciamo che qui passa dall’impossibile al necessario. Quello che è impossibile insegnare, come tuttavia insegnarlo? Infatti, se è impossibile insegnare, è comunque necessario. Dobbiamo innanzitutto distinguere insegnare e insegnare, cioè, per usare il termine di Bertrand Russell, stratificare i due termini. Esiste l’insegnare preso dalla parte dell’impossibile e l’insegnare dalla parte del necessario. Passare dall’uno all’altro, ovviamente, è problematico.

Questo passaggio non è per tutti. Lacan lascia intendere che non riguarda tutti, ma uno, cioè Freud. Giacché la frase che segue lo convoca: Ecco dove Freud ha mosso i suoi passi. Qui c’è un privilegio: Freud per primo, e per molto tempo, si incaricò di insegnare quello che non si insegna, cioè la pratica della psicoanalisi. E lo ha fatto pagando di persona. Ne L’interpretazione dei sogni egli consegna molti dei suoi sogni e non evita mai di attingere alle proprie formazioni dell’inconscio per far progredire la psicoanalisi. Tuttavia, ciò che vale per lui non vale per tutti.

Ma, direi, questo vale anche per Lacan. Non è possibile che non abbia pensato a se stesso. Tuttavia, non lo dice. Forse questo è l’unico caso in cui assume un atteggiamento modesto, perché non vi era portato. Dato che Lacan è stato un riformatore della pratica analitica, questo vale certamente anche per lui, anche se si è difeso dicendo che i tratti per cui la sua pratica si distingue valgono solo per lui. Imitarlo o meno è responsabilità di ciascuno. Tuttavia, in un’occasione, ha reso dottrina la durata variabile della seduta, non la sua brevità. Ci sarebbe molto da dire qui, ma non lo farò ora, perché darò invece credito alla frase seguente, che contiene il nostro aforisma.

“Tutto è sogno”

Eccola qui: Freud ha considerato che tutto è sogno e che tutti (se è consentita una tale espressione) – difatti, è universale, contrariamente a quanto afferma prima – tutti sono folli, ossia deliranti. Le tesi concentrate in questa frase riguardano allo stesso tempo il sogno, la follia e il delirio. Hanno bisogno di essere spiegate. Va notato che Lacan le attribuisce a Freud. È quindi innanzitutto alle opere di Freud che attingerò per far luce su questa frase, in cui sono in gioco tutta la metapsicologia e tutta la clinica.

Notate che, in Lacan, le sedute non sono le uniche a essere brevi, anzi brevissime. I suoi scritti sono sempre in tensione, una tensione incessantemente mutevole – a volte mena il can per l’aia, associa, va a zonzo, a volte il suo discorso si stringe improvvisamente e scocca una freccia spietata che fulmina. È il caso di questa frase – tranne per il fatto che, in questo breve scritto, tutto è scarno, spoglio, ridotto all’osso.

Cominciamo con l’affermazione tutto è sogno. Una frase mozzafiato. Ci si chiede se sia stato Lacan a scrivere questo, dato che in un Seminario fa riferimento al famoso titolo dell’opera di Calderón La vita è sogno, per negare la tesi che porta e invalidarla per quanto riguarda il discorso analitico. Se tutto è un sogno, che ne è del reale? Dobbiamo arrivare ad enunciare che niente è reale (reale nel senso di Lacan)? Il reale è solo illusione, finzione o addirittura delirio? Dopotutto, perché no?

Qui vengono in mente delle affermazioni di Lacan, che sono sempre state considerate enigmatiche. Nella prima lezione del Seminario Il Sinthomo, Lacan sottolinea l’omogeneità dell’immaginario e del reale, che sostiene essere basata sulla struttura binaria del numero, prima di fare riferimento alla teoria di Cantor – che si ritrova peraltro nel seguito di questo testo, di cui analizzo da vicino la composizione. Questo è certamente omogeneo a quanto si dice nella forma tutto è sogno. L’omogeneità tra immaginario e reale è completata dalla notazione che il simbolo sopravanza sull’immaginario[8]. È come se, tenendo conto della matematica che evoca, e in particolare della teoria degli insiemi, il reale e il simbolico fossero riassorbiti nell’immaginario.

Questo non è forse necessario, per poter affermare che tutto è sogno? Questa supremazia dell’immaginario è infatti la conditio sine qua non perché si possa dire che tutto è sogno. Lacan ha iniziato quello che dobbiamo chiamare il suo insegnamento accentuando la prevalenza dell’immaginario, ad esempio ne “Lo stadio dello specchio…”. Non è forse anche l’immaginario ciò che Lacan promuove al termine della traiettoria del suo discorso? Questo non sarebbe insoddisfacente per la mente a cui piace che il discorso si chiuda su di sè. Tuttavia, lascio questo tema in sospeso, utilizzando uno stile interrogativo e il condizionale.

Invenzione del reale

Seguendo questo filo, una seconda osservazione di Lacan si trova nella lezione IX dello stesso Seminario. Lui stesso nota qui che si discosta da Freud. Dice infatti: l’istanza del sapere che Freud rinnova nella forma dell’inconscio, non presuppone necessariamente il reale di cui mi servo[9]. Da questa affermazione trattengo il fatto che, secondo Lacan, la teoria freudiana dell’inconscio non presuppone il reale e che potrebbe sostenersi senza reale.

Il reale in funzione nel discorso analitico è una sua invenzione, è – indica Lacan – la sua reazione all’articolazione freudiana dell’inconscio: reagisce ad essa inventando il reale. Lacan arriva a ridurre il reale ad essere solo la sua risposta sintomatica[10] all’inconscio freudiano. Ciò significa spogliare questo termine di ogni pretesa di universalità, per ridurlo al sintomo di uno-tutto-solo. Ci sarebbero molte cose da dire, ma taglio corto.

Ritorniamo sull’idea che la teoria di Freud non presuppone il reale. Sì, senza dubbio, ma articola che qualcosa opera, permettendo al soggetto di discriminare – diciamo, senza entrare nei dettagli – tra sogno o allucinazione, da un lato, e realtà, dall’altro.

Sostituire senza revocare

Freud ha variato molto sullo statuto di questo apparato, di questo dispositivo che ha chiamato Realitätsprüfung, l’esame di realtà, come è stato tradotto. Sostenere, come fa Lacan, che tutto è sogno significa disdegnare l’esame di realtà, significa amputare dalla teoria freudiana un termine che tuttavia sembra essenziale ed è considerato tale dagli psicoanalisti.

Che sfacciataggine rendere nullo l’esame di realtà e, per di più, imputarlo a Freud! Tuttavia, la teoria freudiana non è così oscura da non poter discriminare, attraverso il suo lavoro, tra ciò che teniamo e ciò che scartiamo su questo punto. C’è spazio per una scelta nell’opera di Freud, che non è il giardino alla francese piantato da Lacan, ma piuttosto una giungla. Lacan sceglie di accentuare in Freud ciò che relativizza, o addirittura rende illusoria, la nozione stessa di esame di realtà. La questione è affascinante per un analista e posso affrontarla qui solo attraverso un cortocircuito.

Per questo motivo andrò direttamente al breve e magistrale testo di Freud intitolato “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico” – o “mentale”, secondo la traduzione – del 1911, tralasciando due testi che lo precedono, il primo nel “Progetto di una psicologia” del 1895, il secondo nel famoso capitolo VII de L’interpretazione dei sogni. Tralascio anche il testo scritto tre anni dopo sulla metapsicologia dei sogni, dove afferma – credo per la prima volta, come indica James Strachey, l’ammirevole traduttore di tutta l’opera di Freud in inglese – che l’Io è la sede dell’esame di realtà (egli nota questa cosa anche nel suo scritto sulla Verneinung). Freud introduce per la prima volta l’espressione esame di realtà nelle “Precisazioni sui due principi…”, ma deve subito notare che i processi inconsci non si preoccupano dell’esame di realtà, che sono impermeabili alla sua azione.

In primo luogo, il testo si propone di articolare la relazione tra il principio di piacere e il principio di realtà. Fermiamoci sulla tesi di Freud secondo cui l’evento decisivo nello sviluppo psichico è l’Einsetzung, l’instaurazione del principio di realtà, che costituirebbe un progresso della massima importanza: il principio di realtà sostituisce ciò che era piacevole, ricercato in base al principio di piacere, cioè un Lustgewinn, un guadagno di piacere, un più-di-godere. Qui abbiamo la soddisfazione di ritrovare in psicoanalisi uno schema molto tradizionale, secondo il quale crescere, raggiungere la maturità, implica la rinuncia al piacere per affrontare la dura realtà. La festa è finita! Tuttavia, come già notato, l’inconscio non conosce l’esame di realtà.

Oltre a questo, c’è una valutazione essenziale di Freud che viene a sfumare, addirittura a contraddire, l’idea di una pura e semplice sostituzione del secondo principio al primo. Freud stesso attenua la sua affermazione: sarebbe sbagliato pensare che la sostituzione del principio di realtà al principio di piacere implichi la deposizione, la revoca, la destituzione (Absetzung in tedesco). Effettivamente – termine con cui traduco la parola Wirklichkeitil sostituirsi del principio di realtà al principio di piacere, dice Freud, non significa la destituzione del principio di piacere, ma una miglior salvaguardia di esso.

In altri termini, e per parodiare una famosa frase di Clausewitz, la sostituzione permette di perseguire il principio di piacere attraverso il principio di realtà. Ciò che si tratta di ottenere attraverso il principio di piacere, poi attraverso il principio di realtà, è sempre il Lustgewinn, secondo il termine talvolta usato da Freud e che tradurremo con questa espressione di Lacan: il più-di-godere. E questo si rivela, per riprendere questa volta una formula di Lacan, impossibile da negativizzare con il principio di realtà.

Sogno e follia

In cortocircuito, diciamo che se si sceglie di privilegiare questa prospettiva, e non quella del cosiddetto esame di realtà, si dimostra in che modo lo stato del sognatore è indistruttibile, che il risveglio è solo un’illusione. Risvegliarsi significa continuare a sognare ad occhi aperti. In questo senso, infatti, tutto è sogno. Per Freud, il delirio appartiene alla stessa classe di fenomeni psichici del sogno. È riportato nella prefazione alla prima edizione de L’interpretazione dei sogni: il sogno si rivela infatti come il primo membro di quella serie di formazioni psichiche abnormi, i cui membri ulteriori [… sono] – fobia isterica, ossessione e delirio. Perché metta le fobie isteriche e le ossessioni nello stesso capitolo è qualcosa a cui non ho ancora pensato.

Inoltre, nel capitolo de L’interpretazione dei sogni intitolato “Rapporti tra sogno e malattie mentali”, Freud tratta sogno e follia sullo stesso piano. Lo vediamo citare dei filosofi a sostegno della sua tesi. Non lo fa spesso; sarebbe necessario elencare quando compaiono i filosofi nel suo testo, cosa estremamente rara. Ebbene, qui cita Kant: Il pazzo è un sognatore da sveglio – che è davvero una tesi freudiana – e poi Schopenhauer che dice che il sogno è una breve follia e che la follia è un sogno prolungato.

Dobbiamo distinguere severamente tra il sogno come fenomeno universale e la follia, che colpisce solo alcuni? Il buon senso vorrebbe che li distinguessimo, non che li mettessimo nella stessa classe. Eppure è proprio della psicoanalisi vedere tra i due solo differenze di qualità e non differenze di natura, per riprendere all’incirca l’orientamento di Clérambault citato ieri da F. Leguil. È la specificità della psicoanalisi mettere in continuità questi fenomeni, mentre spetta ai custodi della realtà comune discriminarli e tracciare una linea invalicabile tra il normale e il patologico.

Nonostante i cortocircuiti che ho dovuto fare per non prolungare eccessivamente questo discorso di chiusura, credo di aver proposto un orientamento chiaro per i lavori che saranno presentati al nostro prossimo congresso tra due anni.

Traduzione: Adele Succetti

Rilettura: Ombretta Graciotti


* Presentazione del tema del prossimo congresso dell’AMP, che si terrà a Parigi nel 2024. Questo intervento è stato pronunciato nella sessione conclusiva delle Grandi Assisi virtuali internazionali dell’AMP La donna non esiste, il 3 aprile 2022, presso la Maison de la mutualité di Parigi e in videoconferenza.

Versione stabilita da Pascale Fari e Ève Miller-Rose con Romain Aubé e Hervé Damase, oltre al contributo di Ariane Ducharme, Jean-Claude Encalado, Nathalie Georges e Cécile Wojnarowski. Testo non revisionato dall’autore e pubblicato per sua gentile concessione. Una prima edizione è stata pubblicata nella rivista La Cause du Désir, n°112 (2022/3), p. 48-75.

[1] J. Lacan, “Lacan pour Vincennes!”, La Psicoanalisi, n. 62, Astrolabio Editore, Roma, 2017, p. 9.

[2] Ibidem.

[3] J. Lacan, “L’aggressività in psicoanalisi”, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 118.

[4] Questa formula, che indica il posto del “d(i)ritto” nel nostro tempo, è l’opposto di quella proposta da J.-A. Miller per specificare l’orientamento aperto da Lacan: lo storto prevale sul dritto (J.-A. Miller, “Note passo passo”, in J. Lacan, Il Seminario, libro XXIII, Il Sinthomo, Astrolabio Editore, Roma, 2006, p. 206).

[5] Cfr. D. Laurent, “Il pousse-à-la-femme: dalla struttura alla logica” & F. Leguil, “L’erotomania depatologizzata”, interventi alle Grandi Assisi, pubblicate ne La Cause du Désir, n°112 (2022/3), p. 88-94 & 82-87.

[6] J. Lacan, “Lacan pour Vincennes!”, op. cit., p. 9.

[7] Cfr. J. Lacan, “Ouverture della raccolta”, Scritti, op. cit., p. 6.

[8] J. Lacan, Il Seminario, libro XXIII, Il Sinthomo, op. cit, p. 17.

[9] Ivi, p. 129.

[10] Ivi, p. 130.